Simone Briatore è stato ospite di numerose istituzioni musicali e ha tenuto concerti con musicisti come Martha Argerich, Enrico Bronzi, Mario Brunello, Bruno Canino, Giuliano Carmignola, Enrico Dindo, Ingrid Fliter, Ilya Grubert, Ilya Gringolts,,Alexander Lonquich, Enrico Pace. Come prima viola ha suonato per enti quali l’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, la Filarmonica della Scala, la World Orchestra for Peace fondata da Georg Solti, l’Orchestra da camera di Mantova, la Camerata Salzburg. Dal 1998 ha ricoperto il ruolo di prima viola nell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, e dal 2009 è prima viola dell’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia a Roma.
Simone Briatore tiene presso l’Accademia di Musica corsi di perfezionamento di viola. Lo abbiamo intervistato nell’ambito di Professione Musicista per chiedergli suggerimenti e consigli utili ai nostri studenti, destinati a diventare la futura generazione di professionisti.
Quali sono le esperienze più significative che hanno caratterizzato il suo percorso formativo, in quale periodo della sua vita e perchè?
Potrei citarne molte, ma ne scelgo tre. Ero un ranocchio adolescente quando frequentai un corso estivo con un famoso insegnante di violino. Lo vidi una volta sola, per il resto fui smistato fra i due assistenti. Uno di essi mi colpì particolarmente per le sue lezioni su Bach, ne ascoltai molte. Il suo modo di concepire quella musica era così intimo, raffinato, lontano dal machismo imperante in certo violinismo “di razza”… Solo successivamente capii che quella particolare sensibilità era nutrita da una profonda ricerca nell’ambito della prassi esecutiva antica, e mi resi conto di quanto quell’incontro contribuì alla mia personalità musicale di oggi, nonostante l’avessi frequentato per pochi giorni. Lui era Adrián Chamorro, gli sono molto grato per questo. Qualche anno dopo – ero forse già un minimo più consapevole – finii a studiare con Vadim Brodski. Scuola russa, violinista di classe straordinaria, il suo carisma rasentava la magia: il semplice fatto di stargli vicino a lezione ti faceva vibrare ad una frequenza superiore, aveva una personalità così generosa e debordante che ne eri inevitabilmente investito, e ne rimanevi impregnato… insomma, bastava condividere con lui quel piccolo palco – in una chiesetta sconsacrata di Senigallia – per suonare meglio, incredibile ma vero (solo nei racconti sui maestri Zen ho sentito qualcosa di simile). E l’effetto di quell’incantesimo lavorava a lungo dentro di te. Attraverso quell’uomo mi si è aperto uno spiraglio su un mondo ormai tramontato, legato a un’epoca e ad una scuola la cui memoria sembra già velata dalle nebbie del mito. Forse mai come allora ho respirato il fascino dell’arte che sottende al fenomeno musicale, il suo respiro profondo. E poi un giorno ho incontrato Tabea Zimmermann, una creatura soprannaturale che vive in perfetta simbiosi col suo strumento, la viola. I misteriosi e imperscrutabili processi che operano in lei ad ottenere un risultato così eccezionale – chiunque l’ascolti non può che rimanerne impressionato – sono di sicuro estremamente complessi. Ma ciò che arriva all’orecchio (e all’occhio) dello spettatore, non è altro che armonia, bellezza, la stessa pura semplicità di uno spettacolo della natura. Infiniti i registri espressivi, la potenza, le sfumature, ogni cosa nelle sue mani si trasforma in continuazione come una creatura vivente. Molte cose ho imparato da Tabea. Una fra tante è l’inestimabile importanza dell’immaginazione: la voce che esce dallo strumento, non è che l’ultimo tassello di un processo, la sua manifestazione tangibile (si fa per dire). Ma la musica, la sua spazialità, la sua forma, la carica emotiva, ogni suo dettaglio e la sua interezza, esistono già prima. Più questa “immagine sonora” sarà completa e chiara dentro di noi, più sarà facile che trovi la strada per realizzarsi.
Ci racconta uno o due momenti determinanti della sua carriera? Cosa hanno rappresentato?
Se parliamo di punti di svolta, senz’altro uno dei più importanti fu l’incontro col mio primo maestro di viola. Dobbiamo tornare alla metà degli anni ‘90, allora ero studente di violino e venne il momento di frequentare il rituale corso di viola complementare: un anno dedicato a scoprire che genere di creature si muovono nei regni ombrosi che si estendono al disotto della corda “sol”. Qualcuno si chiederà: A cosa serve un anno di viola? Evidentemente, quando venne concepito e strutturato il corso di diploma del vecchio ordinamento – un secolo fa, letteralmente! – si riteneva che un buon violinista non fosse tale se non aveva imparato a suonare almeno un po’ la viola. Non è un’idea troppo peregrina. A onor del vero occorre dire che, in molti casi, questa incursione nelle frequenze medie non desta particolare entusiasmo nel cuore dei giovani violinisti, proiettati come sono verso le altezze e le sfavillanti acrobazie del loro atletico strumento, e si risolve generalmente in uno svogliato giro turistico in cui ci si limita a guardare le cose dal finestrino del bus. Probabilmente sarebbe stato così anche per me, se a quel punto non fosse entrato in scena il maestro Davide Zaltron. Lui approdava a Torino, trasferito da non ricordo quale altro conservatorio, ed io nella sua classe, scendendo una rampa di scale dall’aula di violino. Fin dal primo incontro, per intenderci, mi rivoltò come un calzino! Era intelligente, provocatorio, acuto, insomma fu una folgorazione. Al punto che, finito il corso complementare, non esitai ad iscrivermi a quello principale, parallelamente al corso di violino. Portai a termine entrambi e piano piano, impercettibilmente, mi ambientai così bene in quel paese – non più straniero – che mi ci trasferii.
Gli errori spesso sono dei grandi insegnamenti: se potesse tornare indietro cosa farebbe diversamente?
A volte, da ragazzo, ho rinunciato a delle proposte interessanti per timore di non essere all’altezza. Fu una cosa sciocca. La paura e la vergogna sono cattive consigliere, ci impediscono di mettere a fuoco con chiarezza ciò che ci interessa veramente e inibiscono ogni slancio. Viceversa, tutte le volte in cui ho agito con una certa temerarietà, sono stato ripagato in termini di soddisfazioni e insegnamenti. Ma nel mio caso questo atteggiamento “atletico” funziona solo se ho la coscienza pulita, se sono preparato adeguatamente!
Le decisioni importanti da prendere, lungo il cammino, sono sempre molte e talvolta si legano a filo doppio con le occasioni che si presentano. Cosa l’ha aiutata a non perdere l’orientamento?
Come tutti, ho avuto alti e bassi. In certi periodi sono arrivato a chiedermi quale utilità potesse avere un’attività come la nostra, che a prezzo di così tanto tempo ed energie investite, ha come scopo la distillazione di una quintessenza raffinatissima, impalpabile, effimera come poche altre cose su questa terra. “Non è meglio un falegname, un muratore, che può toccare con mano la solidità di ciò che ha creato?” – mi dicevo… Credo sia una fase che molti di noi attraversano. Ma poi ha prevalso l’amore per la musica, che per me ha sempre rappresentato una via d’accesso privilegiata alle profondità dell’animo, forse più di altre arti. Come disse Debussy, che ho amato moltissimo fin dall’adolescenza, “la musica inizia là dove la parola è incapace ad esprimere”. Questa componente mistica – se così vogliamo definirla – è una faccia della medaglia. Dall’altra parte c’è il lavoro più artigianale, la fisicità del fare musica, la sua incarnazione nel nostro studio quotidiano. Sono due aspetti che si compenetrano in maniera indissolubile, e la mia fortuna sta nel fatto che il primo, quello del contatto col profondo, ha sempre nutrito il secondo, più legato alla quotidianità. Quando decisi di tentare il concorso di prima viola presso l’Orchestra Nazionale della Rai, lo feci senza pensare concretamente alle eventuali conseguenze. All’epoca stavo studiando all’estero, la qual cosa mi dava un enorme numero di stimoli. Avevo voglia di imparare, fare esperienze, e con questo spirito mi presentai nel giorno fissato, non tanto con l’idea di cercare un lavoro, anche se oggi sembra sciocco a dirlo. L’esito fu così inaspettato che ne rimasi frastornato. Questo bell’“incidente” scombussolava i miei piani, prima d’allora pensavo che avrei vissuto un periodo a Basilea per poi, chissà, continuare a studiare altrove. La novità mi costrinse a rimettere tutto in gioco, e… a prendere una decisione importante. Iniziai dunque a lavorare in un’orchestra sinfonica, e ciò mi diede l’opportunità di conoscere “da dentro” molte delle splendide musiche che fino ad allora avevo ascoltato avidamente dallo stereo o andando ai concerti. Ancora una volta lo spirito si incarnava nella materia: ciò che prima, attraverso l’orecchio, arrivava a toccare parti di me recondite e insospettate, ora contribuivo a crearlo col mio strumento, assieme ai miei colleghi. Parallelamente, continuai a studiare con maestri che mi diedero grande ispirazione, a suonare molta musica da camera, a percorrere il mio cammino. Ogni tanto ancora oggi mi chiedo come sarebbe stato se a quel bivio avessi svoltato dall’altra parte…
Cosa consiglia ai ragazzi che si stanno perfezionando, oltre allo studio con grande passione e costanza?
Prima di mettere da parte troppo frettolosamente la questione dello studio, e le sorelle Passione e Costanza, parliamone un momento. La scienza ci insegna che non tutti gli allievi sono uguali. Semplicisticamente, li divideremo in due categorie: quelli che studiano poco e quelli che studiano troppo. Se chiedete a uno di quelli che studiano poco Perché studi poco? Seguirà a) un moto di ribellione: Non è vero che non studio, a casa veniva! b) una sequela di scuse a volte fantasiose: Ho passato la notte in questura perché hanno rubato la macchina a un mio amico e poi sono rimasto addormentato. Ma se si ha la pazienza di approfondire la questione, si possono scoprire delle cose interessanti. A volte quando un allievo non studia, c’è in atto una dinamica, non necessariamente cosciente, più complicata della mera pigrizia. Semplicemente non crede che lo studio serva. Non che non ci creda in generale, ma proprio nel suo caso specifico. Non ci crede, e qui veniamo al punto, perché difetta di autostima, ritiene di essere poco dotato e pensa che, per quanto possa affaticarsi sullo strumento, otterrà poco o nulla. È come rinunciare a corteggiare una ragazza che ci sembra troppo bella per noi… Ed è un enorme errore, dalle conseguenze nefaste più d’ogni altro: ci si crede estremamente lucidi nella percezione dei propri limiti, e non ci si rende conto che la nostra mente è spesso abilissima a costruirne di artificiali, quindi falsi ma anche estremamente realistici. La conseguenza è che tracciamo una riga per terra e decidiamo che oltre quel segno non andremo, semplicemente perché siamo convinti di non essere in grado di oltrepassarlo. Molti si iscrivono a un corso, o a più d’uno (ho conosciuto un ragazzo che frequentava cinque maestri contemporaneamente) e così facendo mettono magari a tacere la coscienza, si convincono che stanno facendo qualcosa per progredire, ma finché non decidono di giocare un ruolo attivo nel proprio percorso di crescita personale, non andranno da nessuna parte! Nella loro spasmodica ricerca di qualcuno che dia loro delle soluzioni, dei trucchi, delle pillole magiche, cercano delle alternative a ciò che non ammette alternative! Lo studio è una ricerca, una pratica, un cammino da percorrere, è qualcosa di intimo e personale, qualcosa di nostro che non può essere demandato ad altri. Suonare è un’esperienza, non un pacchetto che si prende o acquista. Tutto ciò per dire questa suprema banalità: studiare serve, eccome! Richiede curiosità e anche coraggio, perché ci costringe a spingerci in territori inesplorati. Ad assumerci la responsabilità di ciò che facciamo. E richiede di essere presenti, vivi in ogni momento, pronti a cogliere le intuizioni che arrivano, ad osservare le nostre tendenze e reazioni, a farci sorprendere da sensazioni che prima ci erano sconosciute, a portare la nostra coscienza sempre un po’ oltre. È bello, a un certo momento, rendersi conto che i nostri limiti – quelli reali – sono fatti di una materia elastica, cedevole. Ma veniamo agli altri allievi, i troppo studiosi. C’è un consiglio anche per loro, non sia mai che ci si accusi di trascurare le minoranze. Intanto guardatevi dalla sindrome della casalinga compulsiva, ossessionata da ordine e pulizia. A cosa serve una casa come uno specchio se poi ci cammini in punta di piedi, non ti siedi sul divano per non turbare la perfezione dei cuscini, ti irrigidisci per timore di mettere qualcosa fuori posto? Suvvia, dobbiamo poterci rotolare nella musica con slancio, come cani che giocano nell’erba, senza timore di rompere qualche oggetto prezioso. In altre parole, viverla intensamente. E non ne saremo capaci se in fase di studio ci saremo preoccupati solo di non sporcare, perché la vita rifugge i luoghi asettici. Quindi inventiamoci uno studio attivo, sensibile, intelligente, usciamo dalla routine. Non celebro la disorganizzazione… Tutt’altro! Ma lasciamo spazio alla fantasia, all’ispirazione, e diffidiamo delle ripetizioni senz’anima! Una precisazione: studiare non vuol dire solo incurvarsi per ore su uno strumento, scatenando l’ira del vicinato. Quando chiedo a un allievo di portarmi la partitura di un pezzo sul quale sta lavorando, il più delle volte mi vedo consegnare un volume nuovo di zecca, immacolato, che profuma ancora di stampa! La parte, un codice miniato, con su scritte mille diteggiature e generazioni di arcate sovrapposte, macchie di unto, orecchie, sgualciture assortite. Ebbene, vogliamo interrogare un po’ la partitura? Forse all’inizio non ne caveremo molto, ma insistendo, a poco a poco scopriremo che ha mille cose interessanti da raccontarci, e il nostro diventerà un dialogo assiduo di cui non potremo più fare a meno. La maggior parte della musica che studiamo è scritta per più strumenti, ebbene onoriamo questa socialità della musica, sennò rimarremo nella limitatezza del nostro orticello. E possiamo andare più lontano: cos’altro ha scritto il compositore negli stessi anni? E prima, invece? E come si evolverà successivamente? Cosa accadeva nella musica a quel tempo? E nella cultura, nella società? In ultimo, ai troppo studiosi suggerisco di separarsi talvolta dal proprio strumento, rassicurandolo se necessario con parole dolci, e tuffarsi un po’ nel mondo. Vedere amici, nutrirsi di cose belle, andare alla ricerca di aria pulita, esporsi al sole, guardare le cose dall’alto di una vetta o nuotare fra i flutti del mare. Nuovamente cito Debussy, che una volta fece dire provocatoriamente al suo Monsieur Croche: “Vedere l’alba è più utile che ascoltare la Sinfonia Pastorale”.
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